Nascita del Modello delle Prestazioni Infermieristiche

Mi viene spesso rivolta una domanda: “quando ha pensato e deciso di elaborare un modello, una teoria?”

È evidente che non esiste un momento preciso, ne una decisione premeditata in merito; ma il ripetersi della domanda mi ha portata a riflettere sulle origini del Modello, sul percorso e su cosa mi ha stimolato a fare quello che ho fatto.

Io ho avuto la grande fortuna di aver scelto una professione che mi piace, che mi è sempre piaciuta. Mi sono diplomata infermiera professionale nel 1950 e da allora ho lavorato in vari ruoli nell’ambito della professione, ma sempre con grosso interesse. Partirei però da che cosa mi ha disturbato e stimolato a far qualcosa che potesse produrre un cambiamento.

Pur partendo dal fatto che mi piaceva enormemente questo tipo di lavoro (anche se nel ’50 la situazione era abbastanza difficile perché in Croce Rossa le infermiere erano pochissime), mi trovavo a disagio nel rapporto col malato e negli anni ho vissuto questa ‘insoddisfazione’, sempre più forte. Mi rendevo conto che il tipo di organizzazione e tutto ciò che mi circondava mi obbligava a fare determinate cose e a lavorare in modo predefinito, questo rendeva difficile creare un rapporto autentico con la persona ammalata.

Perché? Mi spiego in termini molto semplici: il lavoro era impostato con un metodo classico di “taillorismo” cioè ‘fare, fare tanto, nel più breve tempo possibile’. L’organizzazione del lavoro prevedeva di lavorare moltissimo e ognuno aveva compiti specifici; ad esempio, in una corsia di novanta letti, poteva esserci un’infermiera che per tutta la mattina faceva le intramuscolari e nient’altro, un’altra faceva un altro tipo di terapia, un’altra un altro tipo di attività ecc. Cioè il lavoro era impostato sul compito e mai sull’assistenza alla persona.

Questa situazione mi ha disturbato moltissimo, soprattutto il fatto che l’organizzazione dell’ospedale imponeva che alle quattro del mattino si dovessero svegliare i malati per fare i letti. Ma per quale motivo bisognava fare questo? Perché le infermiere erano poche e alle sette del mattino il cinquanta per cento della corsia doveva essere a posto e, soprattutto alle otto, doveva essere tutto lindo e pulito. Mi sono sempre chiesta il perché! Perché invece non si segue il bisogno di una persona e non semplicemente l’esigenza organizzativa? Questa situazione, dura da combattere perché era una consuetudine radicata, mi ha dato forti stimoli al cambiamento.

Nel fare poi per anni l’infermiera di sanità pubblica come assistente sanitaria, mi sono resa conto che gestire invece la mia attività mi permetteva di avvicinarmi molto di più alla persona e alla famiglia. Ed ecco che, al momento in cui sono passata alla direzione di una scuola per infermieri professionali che ho aperto (quella di Magenta) e poi alla Scuola Universitaria di Discipline Infermieristiche (nella quale sono stata chiamata dall’Università degli Studi di Milano), mi sono posta alcuni obiettivi precisi. Primo: puntare su un’assistenza alla persona, cioè personalizzare l’assistenza. Secondo: far si che gli infermieri si rendessero esattamente conto del loro ruolo e della loro competenza. Questo è un discorso che ho incominciato a fare in modo molto serio all’interno dell’Università, perché lì avevo gli spazi per poter agire sia nel campo della ricerca che della formazione.

Come cambiare? Le ricerche hanno percorso due aspetti ben precisi. Il primo, rilevare la competenza infermieristica; il secondo, definire la responsabilità dell’infermiere. Ho iniziato ricercando ciò che effettivamente era di competenza infermieristica. Le infermiere lavoravano sulla base di una legge, un mansionario, che io ho sempre chiamato l’elenco della spesa; non era sicuramente un discorso da professionisti: “questo lo puoi fare, questo non lo puoi fare”; ci sono stati periodi di fuoco anche con i sindacati, nei quali si discuteva sul “non si fa questo, si fa quello, si deve fare…”. Era abbastanza pazzesco! Allora ho ‘ricercato’ la responsabilità infermieristica attraverso i gruppi di studio e l’insegnamento in Università, che mi permetteva di avere studenti provenienti da tutta Italia. Così ho avuto la possibilità di analizzare che cosa veniva fatto effettivamente in corsia e che cosa ‘disturbava’ gli infermieri che non erano soddisfatti. Praticamente in tutta Italia le attività erano identiche. Le questioni principali quali erano? Abbastanza banali: “endovenose le faccio si, le faccio no; le vaccinazioni le faccio si, le faccio no; responsabilità mia, responsabilità tua; ma il medico, ma si, ma no, perché?” Era chiaro che bisognava puntare su un aspetto ben preciso: eliminare il mansionario, ma contemporaneamente costruire e dare un’alternativa agli infermieri. Trasformare l’infermiere in professionista e quindi, se l’infermiere è un professionista doveva avere una competenza sua specifica; questa competenza doveva essere ben chiarita e, nello stesso tempo, supportata da indicazioni di comportamento preciso; non era solo ciò che si faceva, ma come lo si faceva: non poteva perciò essere disgiunto dall’aspetto deontologico.

Ho puntato molto inizialmente sul discorso dello specifico professionale. Analizzando l’elenco delle attività infermieristiche, non pensavo che gli infermieri dovessero cambiare ‘il cosa fare’; era ‘il modo’ che doveva cambiare. L’intuizione è stata semplicemente questa. Il secondo aspetto della ricerca puntava quindi a responsabilizzare l’infermiere attraverso la sistematizzazione di tutto ciò che stava facendo in risposta ai bisogni di assistenza infermieristica e non semplicemente nell’esecuzione di ‘cose da fare’. Ad esempio, l’infermiere si avvicina ad un paziente e analizza quali sono i suoi bisogni, estrapola quelli di assistenza infermieristica (partendo dalla pratica) e risponde a questi bisogni; da qui scaturisce il” fare” dell’infermiere, ma è un fare di cui è totalmente responsabile, non è delegato da qualcun altro. Ecco che tra responsabilità e prestazione nasce la figura del professionista.

La sistematizzazione ha portato ad individuare undici bisogni infermieristici e, nel tempo, a un mutamento delle norme che regolavano rigidamente l’attività infermieristica. E’ stato un percorso sostanziale che ha favorito l’annullamento del mansionario e la nascita di un profilo professionale, che ha sancito chiaramente che ‘l’infermiere risponde ai bisogni di assistenza infermieristica e non più a un elenco di cose da fare’.

Il Modello che avevo portato all’interno della Scuola si è arricchito con la collaborazione non solo dei docenti, ma di tutti gli studenti che l’hanno frequentata e, attraverso le loro esperienze si è potuto dare i contenuti nella risposta ai bisogni di assistenza infermieristica. Ecco, per fare un esempio, noi sappiamo che nel modello si riconoscono undici bisogni e, di riscontro, l’infermiere eroga undici prestazioni. E’ stato evidenziato che nove risposte a questi bisogni sono totalmente autonome, di totale responsabilità dell’infermiere; quindi l’infermiere è un professionista che ha un suo spazio ben preciso, non è delegato da altri e sa leggere i bisogni per poter rispondere ed erogare prestazioni infermieristiche. Due bisogni sono invece risultati di corresponsabilità con la figura medica. Perché corresponsabilità? Perché non è una delega del medico, ma semplicemente i due professionisti interessati intervengono in due momenti diversi per una stessa prestazione, con responsabilità specifiche (il medico per la diagnosi e cura, l’infermiere per l’assistenza). Questo che cosa ha portato? Ha promosso l’analisi dei bisogni della persona e come rispondere a questi bisogni, allo studio di strumenti quali, ad esempio, la cartella infermieristica, ormai divulgata in tutta Italia.

Come si comprende, questo lungo processo portava inevitabilmente anche alla personalizzazione dell’assistenza; non ci sono arrivata con facilità, i passaggi sono stati molti e diversi. Inizialmente, per anni ho lavorato in ricerca sul discorso di organizzazione, sono stata mandata dal Ministero della Sanità in paesi stranieri a vedere qual era il tipo di organizzazione degli ospedali, abbiamo proposto il modello delle piccole équipe. E questo era ottimo! Però incideva solo sull’aspetto organizzativo; appariva evidente che era sufficiente l’assenza di un infermiere per mandare a monte l’organizzazione prevista. Se invece le persone vengono preparate a rispondere ai bisogni, questo rimane, qualunque sia il numero delle persone con cui ci si trova a lavorare. Cioè diventa ‘patrimonio della persona assistere un’altra persona’. Il concetto di persona è proprio questo. Nel Modello non parlo mai né di pazienti, né di utenti, ma di persone, al punto che arrivo a definire persone coloro che stanno vicine alle persone con necessità di assistenza e che possono intervenire.

Dal punto di vista dell’assistenza, il discorso fondamentale è stato l’individualizzazione dell’assistenza. Il Modello, dal punto di vista professionale è uno ‘strumento’ dell’infermiere, che gli conferisce sicurezza, perché egli sa esattamente che cosa deve fare e quali sono i propri spazi. E’ stato un percorso durato anni e al quale gli studenti hanno notevolmente contribuito con le loro tesi.

Spero che queste riflessioni , anche se concentrate, rispondano alla domanda iniziale. Per me è stato un discorso molto importante; l’ho portato all’interno dell’Università, è passato nella formazione del Corso di Laurea per Infermieri, anche attraverso la collana di libri che si basano sul modello, che approfondiscono tutti gli aspetti dell’assistenza infermieristica previsti nel corso di laurea. Ho guidato ricerche in tutte le specialità per rilevare se effettivamente i malati, nei vari settori, avevano gli stessi bisogni. Ad esempio, in pediatria è emerso un riscontro simpatico cioè che i bambini hanno anche un bisogno ludico; in rianimazione l’impostazione della prestazione è diversa perché deve essere rapida, l’infermiere deve rispondere al bisogno e agire con urgenza.

Le sfaccettature rilevate erano diverse ma non cambiano la sostanza. Nella medicina preventiva, predomina l’aspetto educativo, l’insegnare una corretta alimentazione, le migliori posture, le norme igieniche in risposta ai vari bisogni non cambiano la prestazione infermieristica; in ogni caso l’infermiera legge il livello al quale deve rispondere.

La fase successiva è stata la divulgazione e l’applicazione del Modello delle prestazioni infermieristiche, non poteva rimanere patrimonio esclusivo della Scuola; doveva essere messo a disposizione dei professionisti. Ho guidato e partecipato a più di sessanta corsi sul Modello, seguendo il modulo che ho presentato nella seconda edizione del mio libro e, in altra parte del sito si può vedere la notevole partecipazione a congressi e convegni avente per obiettivo la divulgazione della teoria.

Penso sia chiaro che non vi è stato un momento preciso nel quale ho pensato di elaborare un Modello, una teoria, ma questo nasce da un lungo processo di maturazione professionale che mi ha portata a riflettere sull’assistenza infermieristica e, contemporaneamente, sul ruolo infermieristico. Attraverso il percorso descritto ho contribuito a stimolare il cambiamento, a porre e a realizzare taluni obiettivi che la professione voleva raggiungere. Ma per consolidare quanto ‘ottenuto’ e continuare nel perseguimento di numerosi altri obiettivi il percorso è ancora lungo.

Attualmente la formazione infermieristica è inserita in Università da trent’anni, ma siamo sempre nella facoltà di un’altra disciplina: la facoltà di medicina.
Nella docenza abbiamo un numero esiguo di professori ordinari, qualcuno in più di associati e ricercatori. L’insegnamento della disciplina infermieristica è affidato, per la maggior parte, alla buona volontà degli infermieri con la formula del contratto gratuito cioè a costo zero per l’Università. I contratti vengono stipulati in maggioranza con infermieri dirigenti che operano in servizi ospedalieri.

Vorrei vedere lo sviluppo dell’infermieristica in una scuola propria, non inserita in una facoltà di disciplina diversa, ma specificatamente una facoltà di disciplina infermieristica (laurea, laurea magistrale e dottorato di ricerca) con gli infermieri docenti a tutti i livelli, in modo da poter garantire una formazione uniforme. Tutti i docenti infermieri, sia docenti nella teoria che nella clinica devono essere preparati nella disciplina infermieristica per raggiungere un unico obiettivo: la formazione di un infermiere che abbia come scopo l’assistenza alla persona e che costruisca un’identità infermieristica molto chiara.

Non mi spaventa l’aspetto economico e la tenuta del bilancio di una Università specifica di Infermieristica: pensiamo alle rette che attualmente gli studenti aspiranti infermieri, di tutti i corsi di laurea di primo e secondo livello, dei master e dei dottorati di ricerca, versano nelle casse delle varie Università italiane.
Evidentemente nella formazione la docenza è importante perché incide sulla trasmissione dei contenuti. Questo mi porta ad una riflessione: viviamo in un tempo nel quale si è accentuato il tecnicismo, che assorbiamo quale cultura imperante; gli stessi scienziati sono seriamente preoccupati e si chiedono dove ci porterà.
Gli infermieri, soprattutto i giovani infermieri, sono nati e vivono in questa realtà; la loro formazione, con l’ingresso in una Facoltà in cui la matrice disciplinare non è la loro, ha subìto la tendenza biologica, allontanandosi dall’aspetto umanistico e dal concetto ‘del prendersi cura’. E’ facile oggigiorno essere infermieri molto bravi, impeccabili nella tecnica, nel fare e anche nel comportamento. Ma molte delle asserzioni e parole studiate e spontaneamente usate nel mondo infermieristico arrivano all’infermiere prive del contenuto originario e di consapevolezza; restano asserzioni vuote se non si conosce il pensiero sviluppato attorno alla filosofia che pone al centro il rispetto della persona nella sua globalità e la capacità dell’infermiere di leggere i suoi bisogni e di rispondere agli stessi con competenza, professionalità e umanità.

Se manca l’approfondimento della disciplina e il consolidamento dei contenuti infermieristici nell’insegnamento si corre il pericolo che l’assistenza infermieristica in un prossimo futuro sia erogata da figure non infermieristiche. Spero che questo non avvenga mai, perché gli infermieri sono orgogliosi del loro specifico e sono forti della visibilità che traggono dalle persone che hanno bisogno delle loro prestazioni.

Marisa Cantarelli racconta il modello agli studenti
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